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ARTICOLO COMPARSO SU “L’ECO DEL CHISONE” DEL 19 APRILE 2006

Quello di Giulio Francella è un nome che emoziona, se si ha qualche capello bianco. La sua è una vicenda umana e sportiva vissuta tra Canada e Italia. E con Italia intendiamo quella dei paesi: Paternò Calabro (Cosenza), Alleghe (Belluno) e Torre Pellice.
«Negli ultimi due, dove ho giocato, torno molto volentieri – racconta Francella, in Piemonte per riabbracciare gli amici conosciuti in cinque anni di militanza nell’Hockey Valpe –. In Calabria, dove sono nato, sono invece stato una volta sola, negli Anni ’70. Soffrii troppo nel vedere le condizioni in cui vivevano i miei parenti. Solo mio zio, che aveva lavorato in Canada ma poi era tornato a Paternò, possedeva la vasca da bagno».
Non era cambiata molto, la Calabria, da quando Francella bambino l’aveva lasciata, nel 1953. Non si poteva immaginare, per Giulio da Paternò, uno sport più distante dell’hockey dalla sua provincia calabra. Eppure divenne un ottimo giocatore.
A 25 anni, la grande scelta. «A St. Marie, la mia città canadese, conobbi due giocatori che avevano trovato un ingaggio in Italia: Alphrie Coletti (uno scudetto a Bolzano nel 1963, ndr) e Jerry Lacasse (capocannoniere nel ’70/71 con l’Auronzo, ndr). Mi convinsero: presi l’aereo e partii per Milano».
Uniche certezze: il talento hockeystico e due numeri su un bloc notes. «Il primo era quello del presidente dell’Hc Bolzano, Amonn, ma era a caccia in Austria. Provai il secondo: quello di Aldo Federici, allenatore dell’Italia. Fu gentile. E mi fece conoscere Brivio, difensore azzurro».
Era l’epoca in cui si cominciava a puntare sui giocatori oriundi, cresciuti in Nordamerica, per rafforzare la nazionale. Ma le occasioni andavano colte al volo: «Brivio mi portò con sé in un ristorante. I dirigenti dell’Alleghe erano a Milano per accogliere un altro italo-canadese, Cornacchia».
Un emissario veneto propose a Francella: «Vieni con noi a Jesenice. Una settimana di prova, tu e Cornacchia. Poi ti diremo». Francella ricorda l’impatto con la Jugoslavia: «Era un posto angosciante, pieno di polizia. Dissi: “Vi do un’ora: se vi piaccio bene, altrimenti me ne vado”». Un’ora bastò. E Francella divenne un “faro”, per l’Alleghe e per la nazionale.
Poi, nel 1977/78, l’approdo a Torre: «Un cambiamento epocale. La squadra era più debole, ma rispetto alla piccola Alleghe qui c’era vita! Il primo impatto con Torre fu il ristorante Flipot…».
Quattro anni da giocatore, uno da allenatore. Tante sconfitte, qualche bella vittoria, legami per sempre: «Il barbiere Gianni di Luserna… Ogni settimana mi voleva per farmi fare il modello! Ma i capelli non crescevano così in fretta».
«Ho sempre dato il massimo, ovunque – confida Giulio –. Volevo lasciare un “mark”, un segno». E c’è riuscito.

© Daniele Arghittu